La casa dell'accrocchio Pensieri a manovella

14/02/2008

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Qualcuno deve pagare.

«Io ho due amiche che hanno dovuto sottoporsi ad un aborto terapeutico, e so che impatto devastante ha avuto sulla loro vita. Nessuno dice o spiega che l’aborto terapeutico è un parto vero e proprio, con induzione delle contrazioni, contrazioni, dolore, dolore, dolore. Che solo pochissimi ginecologi illuminati preferiscono praticare un cesareo con anestesia totale, evitando così alla donna l’orribile “partecipazione” all’evento abortivo. Una delle due amiche infatti è riuscita a trovare quel ginecologo, che dopo l’ha seguita nella sua successiva (e fortunatamente felice) gravidanza, sottoponendola però non più all’amniocentesi, che diagnostica troppo tardi le eventuali patologie e malformazioni, ma al prelievo dei villi coriali, che si può effettuare molto prima, quando, se sciaguratamente si dovesse interrompere la gravidanza, questa sarebbe comunque allo stadio iniziale. Con evidenti benefici fisici e psicologici per la donna. L’altra amica invece mi ha raccontato sconvolta lo strazio del parto con cui è stato espulso dal suo corpo un esserino malformato, mi ha raccontato di essere stata trattata male, e di aver sofferto come un cane per essere stata ricoverata accanto a mamme felici (com’era stata lei col primo figlio) di neonati sani. La cultura della colpevolizzazione verso la donna che abortisce è sempre piuttosto diffusa, e ha impedito che le nuove tecniche di diagnosi prenatale venissero diffuse e applicate ovunque, sperando di scoraggiare gli aborti terapeutici oppure punendo doppiamente, con la sofferenza fisica del parto, la donna che osa opporsi al “dono” di un dio che se è così crudele non si capisce proprio perché lo si debba amare e venerare.»

Dal blog di giorgi.

28/11/2007

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Filed under: assurdo,misoginia,pensieri,sproloqui — Oscaruzzo @ 01:01

C’è una questione che non mi riguarda per nulla e probabilmente non mi riguarderà mai (per una serie di motivi che avrete ormai capito benone). Eppure questa faccenda è interessante dal punto di vista socio-antropologico quanto dal punto vista logico-matematico. E la questione è: in che posizione deve essere lasciata la tavoletta del cesso dopo l’uso?

Questa domanda sembra essere al centro di una serie infinita di discussioni e di screzi che coinvolgono praticamente chiunque (maschio) abbia avuto la fortuna o disgrazia di coabitare, anche per un periodo breve, con una donna (perché ci ha passato una notte insieme, perché sono coinquilini, perché si sono sposati, o perché sono colleghi di ufficio o per cento altre ragioni).

Le donne, per la poca esperienza che ho, non considerano la questione come soggetta a discussioni. La posizione giusta della tavoletta è sempre giù. Sempre secondo la mia esperienza, alcune sono sinceramente sconvolte dal solo fatto che qualcuno possa cercare di ragionare sulla faccenda. Ma chi tra i miei lettori è stato variamente bastonato in merito, può ora gioire visto che andrò a dimostrare chiaramente che le immutabili leggi della logica sono dalla parte di noi maschietti.

Prima di iniziare, una sola premessa: se la donna di casa insiste per avere entrambe le tavolette abbassate (e cioè anche il coperchio) per una pura questione estetica, potreste essere in una posizione perdente. Perché non solo un cesso con entrambe le tavolette abbassate richiede lo stesso lavoro da parte di lui e di lei per essere usato, ma si dà anche il caso che avere un coperchio sul cesso possa avere senso, visto che evita certi incidenti col sapone, con la dentiera o con chissà quale altro oggetto preferireste non vedere giacere in fondo alla tazza. E poi, diciamolo, in nessuna rivista di arredamento vedrete mai un cesso col coperchio alzato. E se venisse vostra madre a trovarvi, sono sicuro che lo abbassereste.

Se invece la vostra lei esige solo che la tavoletta sia abbassata (ma lascia alzato il coperchio) allora siete a cavallo.

Onde evitare troppe complicazioni, iniziamo con qualche piccola assunzione. Supponiamo di avere a che fare con un sistema chiuso. In casa ci sono un uomo, una donna e una toilette. Niente bambini. Niente ospiti. Niente cani assetati. Niente mamme in visita. Supponiamo inoltre che l’uomo e la donna usino il bagno lo stesso numero di volte. Supponiamo infine che entrambi facciano più volte pipì che non pupù (e scusate se uso termini tecnici), diciamo con un rapporto giornaliero di quattro a uno.

Assumiamo ancora che sia necessario lo stesso dispendio di energia sia per alzare quanto per abbassare la tavoletta. In effetti probabilmente è più faticoso alzare la tavoletta, visto che bisogna chinarsi (ancora più vero per un uomo, che mediamente è più alto) mentre invece basterebbe ben poco ad una donna per abbassarla, tanto più che lo può fare mentre ci si siede con un unico fluido movimento, ma vogliamo essere tanto magnanimi da non tenere in conto questa differenza. Diciamo dunque che alzare e abbassare la tavoletta richiede un certo sforzo che supponiamo costante e unitario.

Ci interessa inoltre la questione dell’efficienza (e lasciamo stare il fatto che qualcuno sostiene che l’esercizio fisico faccia bene: noi assumiamo invece che lo sforzo in generale sia una seccatura e vogliamo minimizzarlo).

Prendiamo dunque in esame tre diversi sistemi di utilizzo. In un primo scenario, quello che tutte le donne che conosco considerano come un dogma, la tavoletta dovrebbe stare sempre giù. Nel secondo, supporremo che la tavoletta sia sempre su. E nel terzo, supporremo che semplicemente venga lasciata così come è stata usata.

Il primo scenario è chiaramente svantaggioso per l’uomo. Ogni singola minzione (leggasi: pipì) richiede per lui due sforzi. Uno per alzare la tavoletta prima e uno per abbassarla dopo. Per le donne, lo sforzo è nullo. Con quattro pipì e una pupù al giorno a testa, alla fine della giornata l’uomo si sarà sottoposto a uno sforzo otto volte, la donna zero. Ovviamente iniquo.

Nel secondo scenario la tavoletta è sempre su. In questo caso a fine giornata l’uomo avrà compiuto due sforzi, la donna dieci. Di nuovo, un sistema iniquo. E anche inefficiente sul totale. Dodici sforzi invece di otto. Non buono.

Nel terzo scenario, ognuno usa il bagno e lascia la tavoletta così come l’ha usata. In questo caso la quantità di sforzi compiuti dipende dalla sequenza con cui lui e lei vanno in bagno (e da cosa ci fanno). Le permutazioni sono troppe e non ho tutta la voglia che sarebbe necessaria per scrivere un programma che le simuli tutte quante, ma possiamo limitarci semplicemente ad analizzare il caso peggiore: quello in cui l’uomo e la donna vanno in bagno alternandosi. In questo caso l’uomo dovrà alzare la tavoletta quattro volte, e la donna dovrà abbassarla quattro volte. Otto sforzi al giorno. Non solo questo sistema è efficace quanto il primo, ma è anche perfettamente equo. E ricordatevi, sto parlando del caso peggiore. In tutti gli altri casi gli sforzi compiuti da ciascuno saranno comunque meno di quattro.

Si noti incidentalmente, che benché il secondo sistema favorisca l’uomo, potrei scommettere che nessun uomo ha mai pensato di proporlo a una donna. Non perché non osasse, ma perché la verità è che agli uomini non importa molto di dover abbassare la tavoletta quando ci si deve sedere o di alzarla quando necessario. Anche in una casa di soli uomini, non succederà mai che qualcuno lasci la tavoletta su per riguardo verso gli altri (o verso se stessi). La posizione della tavoletta non potrebbe essere più lontana dai pensierei di un uomo. Come è giusto che sia. Tutto ciò che un uomo desidera riguardo la sua tavoletta del cesso è poterla dimenticare esattamente nella posizione in cui l’ha usata.

E vien fuori che non solo è giusto e normale, ma è anche equo ed efficiente. Fine della discussione.

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